| Un’eco tra i mondi
Era lì che continuava a girare in circolo in quel giardino spoglio e dimenticato come una tigre in gabbia; non voleva entrare in quella casa ma qualcosa l’aveva attirata lì quella notte, lo stesso qualcosa che continuava a ripeterle il nome di Johnathan facendoglielo riecheggiare nella mente ed evocando vecchi ricordi…
«Dai vieni!», ripeté ancora una volta Johnathan. «Te l’ho detto Nath, io in quella casa non entro!», rispose Hope, poi aggiunse: «Non lo sai che l’ultima persona che ci ha abitato è stata uccisa da un fantasma?». «Non è sicuro che sia morta; non hanno mai trovato il corpo!», disse con la voce che tradiva una certa emozione. «È successo più di un secolo fa, il fantasma se ne sarà andato da un pezzo!». «I fantasmi non se ne vanno così!», replicò Hope, «Non entrerò in quel posto e non dovresti nemmeno tu!», ciò detto si allontanò dallo steccato che divideva le due proprietà e si diresse verso casa. «Antipatica!», le urlò dietro Johnathan, facendo seguire all’espressione una sonora linguaccia subito prima di correre verso l’edificio abbandonato e sparire poi oltre l’uscio.
“Da quel giorno non lo vide più nessuno…”, pensò Hope, “Non mi credettero quando dissi che lo aveva preso lo spettro della casa, pensarono a un rapimento per mano di qualche balordo…”. Crescendo anche Hope iniziò a vederla così e, con il passare del tempo, non vi aveva più pensato. Ma ora… ora era lì e non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Con un misto di curiosità e timore, Hope si diresse verso l’edificio; giunta dinanzi la porta d’ingresso si fermò esitante, lo sguardo fisso sulla maniglia… Solo dopo alcuni minuti riuscì a raccogliere il suo coraggio, afferrarla ed entrare. L’interno rispecchiava perfettamente la decadenza dell’esterno, effetto dell’incedere interminabile del tempo. Polvere e ragnatele la facevano da padrone, indisturbate da lungo tempo; nell’aria c’era umidità e si percepiva odore di muffa. Nelle stanze buie, a tratti illuminate dalla torcia di Hope, si trovavano ancora le spoglie di quelli che un tempo furono mobili, testimoni silenti di vite passate. Incerta sul da farsi e non sapendo cosa cercare esattamente, con andatura esitante e sobbalzando a ogni minimo suono, iniziò a esplorare l’edificio tentando d’individuare eventuali tracce residue del passaggio di Johnathan, ben consapevole che dopo tanti anni era assai improbabile che fosse rimasto qualcosa. Dopo un primo giro del piano terra si avviò verso le scale per cercare di sopra, sperando che la struttura non fosse troppo compromessa dal tempo e che potesse sostenere le sollecitazioni del suo passaggio. Prestando ben attenzione a dove posava i piedi, stava per raggiungere il primo piano quando notò un leggero bagliore filtrare da sotto una porta che credeva d’aver già controllato: “Che strano…”, pensò. Perplessa ridiscese i gradini, cercando di mantenere un atteggiamento logico e razionale in una situazione che la stava facendo dubitare della sua stessa salute mentale: “Probabilmente mi è sfuggita durante il primo giro… Sì, deve essere così!”, si ripeté più volte cercando di farsi coraggio. Raggiunta la soglia, accostò l’orecchio alla porta per cercare di capire se vi fosse qualcuno all’interno della stanza; neppure un fruscio. Tentò allora di guardare dalla toppa della serratura, purtroppo la chiave era inserita dall’altro lato e le bloccava la visuale. Terminate le opzioni, fece un profondo respiro ed entrò. La stanza, un ampio salotto, non sembrava avere nulla di diverso dal resto della casa; era nello stesso stato di abbandono e non sembrava esserci segno della presenza di qualcuno. Hope si voltò per uscire, però la sua attenzione fu attirata da qualcosa: sulle assi logore del pavimento di fronte al caminetto, seminascosto da uno strato di polvere, c’era un insolito disegno circolare. Hope si avvicinò per controllare meglio, sperando in un collegamento con Johnathan; vi posò il piede cercando di rimuovere la polvere e in quell’istante un’intensa luce si sprigionò dal disegno costringendola a coprirsi gli occhi. Quando finalmente il bagliore si attenuò Hope, sebbene stordita e confusa, fu nuovamente in grado di distinguere ciò che la circondava. L’edificio in cui si trovava pochi istanti prima non c’era più, al suo posto solo poche macerie a ricordare i tratti di una costruzione; in terra quello che un tempo doveva essere stato uno splendido pavimento in pietra, anche se distrutto, presentava ancora distinguibile lo stesso disegno circolare della casa. «Ma cosa… dov’è finita la casa?», disse scossa e spaventata. Nel tentativo di ritrovare la calma, Hope iniziò a guardarsi intorno per cercare un punto di riferimento, qualcosa di familiare, che le permettesse di capire dove potesse essere finita e che direzione prendere per tonare a casa. «Forse…», disse dirigendosi verso un sentiero all’apparenza ancora utilizzato, «Forse troverò qualcuno in grado di darmi indicazioni…». Quel luogo si presentava davvero desolato, difficile immaginare qualcuno percorrerlo; eppure non aveva altre alternative, se non di rimanere tra quelle rovine aspettando un improbabile passante. La vegetazione aveva preso il sopravvento sulle poche costruzioni presenti e nell’aria solo un assordante silenzio, neppure un cinguettio d’uccelli o un ronzio d’insetti a interromperne il fastidio. Stava procedendo lungo il sentiero già da un po’, quando, dalla boscaglia che lo fiancheggiava, iniziò ad avvertire un energico fruscio sempre più intenso, come di qualcuno che attraversava il bosco correndo verso di lei. Poteva essere la soluzione al suo problema ma, per quanto avesse bisogno di aiuto, Hope non ignorò che, chiunque fosse a dirigersi verso di lei, stava correndo e questo poteva essere preludio di nuove complicazioni. Decise di nascondersi dietro i resti di un vecchio muro per controllare la situazione ed evitare altre difficoltà. Rapida si acquattò e, dopo poco, dall’intrico di piante emerse un uomo: alto, un po’ oltre la quarantina, appariva esausto eppure non sembrava intenzionato a riposare. Si fermò meno di un istante in mezzo al sentiero poi, con fare deciso, si diresse verso le macerie dietro le quali si nascondeva anche Hope. L’uomo la vide rintanata lì e per un attimo rimase a guardarla chiaramente sorpreso di trovarvi qualcuno, ma la sua esitazione durò poco; i rumori provenienti dal bosco si facevano sempre più vicini, non c’era tempo per preoccuparsi di altro. Si acquattò accanto a Hope facendole segno di non parlare. Non passò molto tempo che dalla boscaglia sbucò un gruppo di strane creature. La pelle grigio-nera metteva in risalto la corporatura massiccia e slanciata; gli arti superiori, lunghi e affusolati, terminavano con terrificanti artigli affilati. Le gambe, più corte, li costringevano ad assumere una postura grottesca e spaventosa: piegati in avanti, avanzavano supportati dalle braccia e, a ogni passo, squarciavano il terreno con le acuminate estremità; nonostante ciò la loro agilità era sorprendente. Hope e l’uomo rimasero nascosti quasi senza respirare dietro i resti del muro; immobili e in attesa, non poterono far altro che sperare che quegli esseri non pensassero di controllare anche lì e che si dirigessero altrove. Fortuna volle che, come attratti da altro, le creature riprendessero la via del bosco sparendo tra la vegetazione. I due, però, non lasciarono subito il loro riparo, attendendo ancora svariati minuti, per esser certi di avere via libera. «Dovrebbero essere sufficientemente lontani ormai, sono bastardi veloci!», affermò l’uomo uscendo da dietro le macerie e rompendo il pesante silenzio creatosi. «Cosa… cos’erano quegli esseri?», chiese Hope con un filo di voce senza distogliere lo sguardo dal limitare del bosco in cui erano sparite le creature. «Stai scherzando, vero?», ribatté energico l’uomo, «Non dirmi che non hai mai visto un Senz’anima? Ma dove hai vissuto finora?». «Dove ho vissuto io? Dove siamo ora piuttosto? Tu chi sei? E che sono questi “Senz’anima”? E…». «Ehi calma!», la interruppe, «Io sono Anbard e questo è, o dovrei dire era, il regno di Terrwyn però… Forse sarebbe meglio continuare questa conversazione in un luogo più protetto. Andiamo ti porto a Remtor, una piccola cittadina ancora sicura; non ci vorrà molto, ero diretto lì e non ho deviato troppo durante la fuga!». S’incamminarono e, come previsto da Anbard, in poco tempo raggiunsero Remtor, celata tra la fitta vegetazione; di fronte ai loro occhi si ergeva una cinta muraria che, a giudicare dall’aspetto, aveva vissuto giorni migliori. Una delle sentinelle stanziate sulle mura riconobbe Anbard e segnalò di aprire i cancelli. «Ehi Endeir!», urlò Anbard per richiamare l’attenzione di una guardia, «Avvisa il capitano che ce n’era un gruppetto a poco più di un’ora a est di qui!». Il soldato fece un cenno con la testa e si allontanò rapido. Seguendo Anbard, Hope si guardava intorno stupefatta da quel luogo così diverso: “Sembra quasi di essere finiti in una rievocazione storica!”, pensò un po’ perplessa. Arrivati all’ingresso di una piccola casa in pietra grezza, Anbard aprì la porta facendola accomodare. In quell’unico locale erano presenti una sala da pranzo, un cucinino e una stanza da letto sapientemente separati dai mobili più grandi; uno scaffale carico di vecchi libri, una credenza e un armadio creavano una parete celando alla vista un letto di legno scuro, mentre di fronte al piccolo caminetto era collocato un tavolo quadrato con un paio di sedie. Anbard invitò Hope a sedersi porgendole un boccale d’idromele, ne versò uno anche per sé e si sedette a sua volta. «Bene!», esclamò la giovane donna, «Ora che siamo “al sicuro”… ti dispiacerebbe dirmi dove mi trovo e che cos’è tutta questa storia?». «Ti ho già detto che siamo nel regno di Terrwyn e che questa è Remtor… Tu però non mi hai detto chi sei, né da dove vieni né, tantomeno, come mai non conoscevi i Senz’anima…». «Mi chiamo Hope. Sono nata a New Orleans, in Louisiana, però abito a Dallas in Texas. Americana al cento percento! E dalle nostre parti non abbiamo simili creature!», terminò con tono quasi di rimprovero. «Non ho mai sentito nominare questi luoghi… possibile che esistano ancora portali attivi e che lei ne abbia attraversato uno?», disse senza neppure rendersene conto. «Portali? Che portali? E poi cosa cavolo sono questi Senz’anima?». «Vedi, alcuni secoli fa, nel regno di Terrwyn, esistevano persone capaci di creare portali che permettevano di collegare mondi diversi che normalmente non sarebbero potuti entrare in contatto l’uno con l’altro; da quei mondi furono portati nel nostro delle creature da utilizzare come carne da macello in guerre e battaglie. In breve tempo il sovrano di Terrwyn riuscì a conquistare i regni confinanti, unificandoli sotto il suo vessillo…», Anbard s’interruppe per bere, poi riprese: «Cessate le ostilità, gli evocatori di portali si sentirono messi da parte e cercarono nuovi scontri sfidandosi tra loro; in base ai propri poteri ognuno evocava le creature più potenti e le lanciava in lotta contro quelle degli altri…». «Fammi indovinare…», intervenne Hope, «Le creature divennero così potenti e numerose da non poter essere più controllate mandando a catafascio il regno. Sbaglio?». «No, non sbagli…», rispose l’uomo in tono gramo, «Li chiamiamo così perché non sembrano possedere né anima né coscienza, non è possibile ragionarci…». «Quei portali di cui parlavi… ne esistono ancora quindi?». «Non credevo, ma se quel che dici è vero, è possibile…». «Be’, spiegherebbe il mio arrivo qui…». «Forse conosco chi potrebbe saperne di più!», esclamò energico Anbard, «Si tratta di un tipo un po’ strano a dirla tutta… Viaggia da solo per tutto il regno e possiede un’ascia in grado di uccidere i Senz’anima come se nulla fosse! Se non ricordo male, la chiamano ascia di Jatek…». «Ma se viaggia tanto… come faccio a trovarlo?». «So che c’è un tale, Garran mi sembra, in grado di mettersi in contatto con lui in caso di necessità…», rispose, «Ci vorrà un po’ ma non abbiamo molta scelta…». «Perché mi aiuti? Voglio dire… non che io non lo apprezzi, ma tu neppure mi conosci!». «Tu… mi ricordi molto mia figlia Elani…», rispose dopo un po’, «I Senz’anima ci colsero alla sprovvista e…», s’interruppe non riuscendo a proseguire. «Io… mi dispiace…». «Non devi dispiacerti, non è colpa tua.», disse rivolgendole un sorriso, «Bene, vado a cercare quel tale, tu resta pure qui a riposare. Fai come fossi a casa tua!», aggiunse poco prima di uscire. Non riuscendo a rimanere in casa a far nulla, Hope decise di andare in esplorazione di quel mondo a lei estraneo. Nella piccola cittadina, protetta dalle mura, la gente si affaccendava nelle più diverse attività: alcune donne lavavano gli indumenti nel corso d’acqua che attraversava il borgo conversando tra loro; nelle scuderie all’ingresso della città, il maniscalco e lo stalliere erano intenti a ferrare alcuni cavalli. Proseguendo verso la zona centrale, tra fornai e banchi di frutta, verdura e spezie, i profumi si fondevano armoniosi prima di giungere alle narici, stuzzicando l’appetito. Tornata a casa di Anbard prima del suo ritorno, Hope si sedette ad attenderlo quando la miriade di emozioni provate in quella giornata interminabile mutò in un’immane stanchezza che, ora che si trovava al sicuro, la vinse facendola scivolare in un sonno profondo. Il sole terminava il suo declino verso ovest quando finalmente Anbard rincasò. Entrando trovò Hope addormentata sul tavolo; delicatamente la sollevò adagiandola piano sul suo letto. L’uomo gettò a terra un paio di pesanti coperte sistemandosi alla meglio per passare la notte. Alcuni giorni più tardi, dopo accurati preparativi, i due s’incamminarono per raggiungere il luogo indicato da Garran per l’incontro; lo avrebbero raggiunto in mezza giornata, salvo eventuali deviazioni. Proseguendo rapidi tra la vegetazione, grazie alle conoscenze di Anbard, erano ormai a poco meno di due ore di cammino dal luogo dell’incontro quando, come apparsi dal nulla, si ritrovarono davanti una coppia di Senz’anima; Anbard estrasse la lunga spada dal fodero frapponendosi tra loro e Hope. Nell’arco di pochi secondi altre creature emersero dalla boscaglia alle loro spalle accerchiandoli e bloccandogli ogni possibilità di fuga. Cercando di mantenersi tra i Senz’anima e Hope per difenderla, Anbard tentò, spostandosi con movimenti lenti e continui, di far raggruppare quelle bestie per mantenerle tutte di fronte a sé. Lo stratagemma funzionò ma non potevano rimanere così a lungo, presto o tardi quegli esseri si sarebbero stancati di quello statico gioco di sguardi; doveva trovare un modo per permettere a Hope di fuggire senza essere inseguita. «Cercherò di distrarli e trattenerli il più a lungo possibile», disse sottovoce rivolgendosi a Hope, «cerca di allontanarti il più possibile da qui!». «Non ti lascio qui a morire per causa mia!», ribatté piano ma energica. «Non sono riuscito a salvare Elani… Non permetterò che prendano anche te!». Il suo sguardo calmo e risoluto non lasciò spazio ad altre repliche. Hope annuì a malincuore. «Corri e non voltarti indietro!». L’improvviso urlo di Anbard disorientò brevemente i Senz’anima, permettendo a Hope d’incamminarsi non notata in direzione del luogo d’incontro. Gli ampi e rapidi movimenti e le energiche grida dell’uomo attirarono su di lui tutta l’attenzione delle creature, distogliendola dalla giovane donna che continuò ad avanzare senza voltarsi. Hope si fermò di colpo; non era certa di quanto si fosse allontanata dallo scontro, ma non riusciva più a sentire le grida di Anbard. Per onorare l’ultima richiesta di Anbard non si voltò, pur rimanendo in ascolto nel tentativo di udire il combattimento. Nulla, la foresta taceva. Un lieve fruscio tra i cespugli la fece trasalire; si mosse rapida nella direzione opposta per mettere un po’ di distanza tra lei e qualunque cosa avesse prodotto quel suono. La sua corsa si arrestò in fretta: un uomo sbucò dalla vegetazione sbarrandole la strada. Mentre con lo sguardo cercava un modo per fuggire ed evitare un possibile scontro, Hope notò la grande ascia che l’uomo impugnava nella mano destra: una massiccia ascia bipenne con lame nere come le lucide piume di un corvo. «Quella è l’ascia di Jatek, vero?», esclamò energica, «Allora tu sei la persona che dovevo incontrare!». L’uomo la squadrò da capo a piedi: «Tu non sei un uomo…», disse calmo, «Mi avevano riferito che il contatto era un uomo. Chi sei tu?». «L’uomo di cui parli… è rimasto indietro per permettermi di fuggire da un gruppo di Senz’anima…», rispose distogliendo lo sguardo. «Seguimi!», disse l’uomo inoltrandosi nella boscaglia. Avanzarono in silenzio fino a raggiungere una grotta nascosta alla vista dall’alta vegetazione, impossibile da notare a meno di sapere dove si trovi. Procedettero più internamente sino ad arrivare al bivacco dell’uomo. «Qui possiamo parlare.», annunciò, «Perché mi hai cercato? Che cosa vuoi?». Hope raccontò tutto quello che le capitò dal suo ingresso in quella casa abbandonata. Il suo ospite ascoltò in silenzio, fino alla fine, sebbene alcune parti di quel racconto gli fossero in qualche modo familiari. «Perciò stai cercando un modo per tornare nel tuo mondo…». «Esatto!», confermò Hope, «Sai se esistono ancora dei portali attivi? O conosci qualcuno in grado di attivarne?». «Esiste un portale ancora collegato a questo mondo…», iniziò, «Purtroppo funziona a senso unico: si può arrivare qua, ma non tornare indietro. È quello che hai attraversato anche tu». Lo sguardo di Hope, fino a poco prima pieno di speranza, ora mostrava solo tristezza, disperazione e rammarico e i suoi occhi iniziarono a riempirsi di lacrime amare. «Però è possibile, in teoria, aprirne di nuovi!», si affrettò a dire l’uomo dispiaciuto nel vederla così. «Secondo le mie lunghe ricerche, potrei essere in grado di farlo. Ho solo bisogno che una persona mi consegni ancora un paio di cose». Con gli occhi ora colmi di gioia e gratitudine, Hope lo abbracciò d’impulso. Non avvezzo a simili manifestazioni emotive, imbarazzato, rimase immobile nell’attesa di essere liberato dall’abbraccio. «Entro pochi giorni dovrei ricevere tutti i componenti che mi mancano. Puoi rimanere qui nell’attesa, non è un problema». «Ti ringrazio! Non conosco neppure il tuo nome…». «In genere mi chiamano “randagio” perché non faccio che vagabondare… Ma tu puoi chiamarmi John». «John…», ripeté lei, «Io sono Hope!». Quel nome lo colpì come un pugno in pieno stomaco. Se prima poteva ancora avere dei dubbi, ora ne era certo: era lei! Notando l’espressione sul suo volto, Hope chiese: «Ti senti bene?». «Sì, grazie…», rispose subito. “Non ha capito chi sono… E come avrebbe potuto? Sono passati anni da allora!”, pensò. “Probabilmente è meglio così…”. Nei giorni che seguirono, in attesa che John ricevesse gli oggetti che gli occorrevano per aprire il portale, Hope rimase perlopiù all’interno della grotta. Solo una volta accompagnò John in una delle sue ronde. Mentre tornavano verso il bivacco nella caverna, incontrarono dei Senz’anima; l’abilità con cui l’uomo maneggiava quell’ascia era straordinaria, non sembrava neppure percepirne il peso! Uccise le creature, però, John crollò pesantemente sulle ginocchia lasciando cadere l’arma. Allarmata, Hope lo raggiunse immediatamente per soccorrerlo. Scuotendo la testa, l’uomo rifiutò il suo aiuto. Pensò allora di recuperargli l’ascia ma, mentre si chinava per raccoglierla… «Non toccarla!», urlò con rabbia John. Hope si bloccò. Finora non lo aveva mai sentito alzare la voce, era sempre stato calmo sebbene un po’ distaccato. John si rialzò, raccolse l’ascia e, accertatosi che lei lo seguisse, si diresse nuovamente verso la grotta. Nessuno dei due disse più nulla e, per parecchi minuti, un pesante silenzio s’impossessò della caverna. Alla fine fu lui a iniziare. «Mi… mi spiace per prima…», iniziò, «Sono mortificato per la mia reazione…». «Non era necessario reagire in quel modo solo perché non volevi che io toccassi la tua “preziosissima” ascia!», ribatté Hope evidentemente alterata. «Non si tratta di questo…», provò a spiegare, «Per capire, devi vedere…». Ciò detto, si tolse gli indumenti rimanendo a torso nudo. Dopo un primo momento d’imbarazzo, Hope notò uno strano segno che, dal polso destro, si estendeva fino alla spalla di John. «Questo è il prezzo da pagare per impugnare un’arma tanto potente.», disse, «Il suo potere corrompe chi la usa, lo consuma fino alla morte…». Senza parole e non sapendo come reagire a quella rivelazione, rimase seduta a guardare le lingue di fuoco danzare e innalzarsi verso la volta della caverna. Finalmente arrivò il giorno tanto atteso. C’era voluto molto, ma ora tutti gli elementi di creazione per il portale erano pronti. «Presto tornerai a casa! Sei felice?», chiese John. «Sì, ma…» «Qualcosa non va?» «Non si potrebbero far passare anche tutti gli abitanti del regno? Potrebbero finalmente lasciarsi questo incubo alle spalle…». «Purtroppo questo tipo di portale è utile per un solo passaggio, non è duraturo…». «Ma…». «Non ti devi preoccupare!», disse in tono rassicurante, «Qui ci sarò io a proteggerli tutti!». «Sì, certo… Finché non sarai ucciso da quella maledetta ascia!», disse con le lacrime agli occhi. «Non piangere per me. Ho scelto io il mio destino in questo mondo. Va bene così». Mentre apriva il portale per Hope, nella grotta iniziarono a irrompere frotte di Senz’anima. Impugnando la sua ascia, John cercò di guadagnare tempo per permettere al portale di attivarsi. Ben presto sul suolo della caverna si formò un vero e proprio tappeto di corpi, ma neppure questo gli avrebbe impedito di rimandare a casa Hope. Un forte bagliore si sprigionò dal portale, segno che il processo di apertura era giunto al termine. «Entra nel portale Hope!», gridò John per sovrastare le urla di rabbia e dolore delle creature che continuavano a cadere sotto i colpi della sua ascia. Hope scosse energicamente la testa; non avrebbe lasciato che altri morissero per lei, non di nuovo! Con un misto di gratitudine, rabbia e mille altre emozioni, John la raggiunse spingendola con forza nel portale. «Johnathan!», gridò Hope mentre lo vedeva svanire insieme alla grotta. Era lì che continuava a girare in circolo in quel giardino spoglio e dimenticato come una tigre in gabbia; non voleva entrare in quella casa… Guardò un istante ancora l’edificio, poi si diresse piano verso casa.
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